Articolo pubblicato su © PSYCHOMEDIA
Alessandra De Coro, Professore Associato di Psicologia Dinamica, Corso Progredito, Facolta' di Psicologia dell'Universita' di Roma "La Sapienza".
Roberto Mucelli , Psicologo, Specialista in Psicologia Clinica Libero Professionista, Socio del Gruppo Italiano per la Lotta contro il LES
Si ringrazia il Dott. Mauro Pizzuti per aver contribuito alla stesura dei paragrafi 2, 3 e 4.
Dal punto di vista medico, da tempo la definizione di "malattia psicosomatica", intesa come un insieme di disfunzioni fisiologiche e alterazioni strutturali che siano originate da processi di natura psichica, e' risultata ambigua e insufficiente ad operare precise distinzioni diagnostiche. Bakal (1979) raccomandava per esempio un approccio "olistico" e "integrato" a qualsiasi tipo di paziente, sostenendo che "la maggior parte delle malattie sono di origine multifattoriale, hanno cause sia psicosociali sia fisiche" (op.cit.,p.15).
Anche nel campo degli studi psicoanalitici, d'altra parte, negli anni '70 vari autori statunitensi mettevano in discussione la questione della cosiddetta specificita' psicosomatica, cioe' la corrispondenza di tratti tipici della personalita' (in termini di specifiche situazioni conflittuali e strutture difensive) con specifici disturbi funzionali. Fra gli altri, Luborsky et al. (1973) mettevano in luce che non era possibile dimostrare altro che la presenza, in tutti i pazienti affetti da sindromi "psicosomatiche", di una maggiore intensita' dei conflitti relativi all'ostilita' e di sentimenti di impotenza, frustrazione, depressione. In Europa Cremerius, criticando la credibilita' dell'ipotesi di una "struttura psicosomatica" della personalita', che era stata proposta dagli autori francesi come diagnosticamente differenziabile sia dalle nevrosi che dalle psicosi (Marty et al., 1963), invitava a riconsiderare il significato delle molteplici e variabili trasformazioni sintomatiche che si osservano nel decorso dei cosiddetti disturbi psicosomatici su lunghi periodi: "le sindromi funzionali possono trasformarsi in affezioni organiche, in quadri patologici psiconevrotici e psicosociali, ma anche in un'altra sindrome psicosomatica" (Cremerius, 1977, p.63).
La fluidita' dei quadri clinici induce ad abbandonare definitivamente, allora, i tentativi di costruire quadri diagnostici "strutturali" di una ipotetica personalita' psicosomatica, e a ricondurre piuttosto la ricerca clinica all'obiettivo di formulare ipotesi specifiche sulle modalita' relazionali e adattive che caratterizzano determinati pazienti, e soprattutto sui significati che assumono le malattie somatiche e/o i disturbi funzionali nell'ambito di processi di sviluppo di natura e biochimica e psicosociale.
In termini piu' generali, se intendiamo per "realta' psicologica" quella evidenziata dal fatto che "una distinzione elaborata in un certo ambito... poggia su principi psicologici di cui la gente si serve per «negoziare» le proprie transazioni con il mondo" (Bruner, 1986, p.114), appare indubitabile che la malattia somatica, qualsiasi essa sia ma soprattutto quando essa presenti caratteristiche di cronicita' e/o di rischio invalidante, assume lo statuto di un "oggetto" privilegiato sia della ricerca che dell'intervento psicologico.
Nell'ambito teorico della psicologia dinamica, basti ricordare che un recente trattato di "terapia psicoanalitica" individua lo spazio dei rapporti fra cura psicoanalitica (Gli stessi autori, nel primo volume dell'opera, indicano questo termine come inclusivo di scelte tecniche differenziate, dalla tradizionale "psicoanalisi" alla "psicoterapia psicoanalitica" alle diverse forme di "psicoterapia a orientamento psicodinamico". Cfr. Thomä, Kächele, 1985, p.274). e sintomi somatici in relazione a due tipi di problemi: a) il nesso psicodinamico fra la disfunzione somatica e l'esperienza dell'angoscia (Nell'originaria concezione freudiana delle nevrosi attuali l'angoscia "non era ascrivibile... a dinamiche che interessavano livelli simbolici inconsci, ma... originava da un circuito somato-psichico diretto" -Petrella, 1989, p.47-. Ricordiamo, tuttavia, che in anni successivi Freud abbandonava la definizione puramente energetica dell'angoscia per attribuirne le origini all'impotenza originaria del bambino piccolo di fronte alla paura di perdere l'oggetto d'amore);
b) la "traducibilita' del linguaggio corporeo in lingua parlata", attraverso una ricerca dei significati affettivi che consenta di valutare i diversi elementi osservati in maniera integrata (Thomä, Kächele, 1988, pp.437-520). A nostro parere, un modello evolutivo che permette di coniugare questi due livelli e' quello proposto da Stern (1985), che ridefinisce le "angosce primitive" in termini di una "valutazione affettiva negativa" in presenza di situazioni interpersonali che creino fratture nell'esperienza dell'organizzazione del Se' e di specifiche organizzazioni sociali: tali fratture, infatti, provocherebbero "temporanee e parziali dissoluzioni del senso del Se' nucleare" (op.cit., p.207). Sulla base delle sue ipotesi sulla formazione interpersonale dei sensi del Se', Stern propone di considerare la psicopatologia come il risultato di "deformazioni" di uno qualsiasi dei sensi del Se' in un qualunque momento del corso dell'intero ciclo di vita: "A un estremo vi sono le nevrosi attuali, in cui un evento isolato (imprevedibile e specifico) colpisce l'individuo con conseguenze patogene.... All'altro estremo si trovano i modelli interattivi cumulabili che si possono osservare molto precocemente, anche nell'infanzia, quando si formano, e certamente in seguito, durante tutto lo sviluppo" (ivi, p.261).
Tale prospettiva interpersonale sembra dunque consentire di ricondurre le ipotesi relative all'espressione somatica dell'angoscia e l'indagine sulle difficolta' di comunicazione simbolica degli affetti ad un medesimo quadro evolutivo di riferimento: concetti quali quello di "sintonizzazione" e di "risonanza affettiva" sembrano offrire un contenuto operazionale piu' rispondente alle rilevazioni sulle competenze del neonato, rispetto alle ipotesi cliniche formulate, per esempio, da Winnicott e da Bion circa le funzioni materne come "organizzatore" delle simbolizzazioni affettive; l'ipotesi di una continua "riorganizzazione" dei modelli interattivi, inoltre, permette di rendere piu' flessibile la ricerca dei momenti "sensibili" nel corso dell'intero arco evolutivo.
In anni recenti Taylor (1987) ha utilizzato appunto i risultati della ricerca psicoanalitica in eta' evolutiva per suggerire che le difficolta' incontrate nelle interazioni precoci, in quanto ostacolanti una adeguata interiorizzazione delle relazioni oggettuali, possano comportare anche nell'eta' adulta una eccessiva dipendenza dalle relazioni reali per la regolazione biologica: cio' potrebbe spiegare le differenze individuali nelle reazioni ad eventi stressanti (per lo piu' indicati dalle ricerche come "eventi di perdita"), che vengono segnalate da piu' parti come fattori scatenanti o almeno concomitanti nell'insorgenza di varie malattie somatiche. In una direzione analoga Kreisler (1985a) invita a considerare il "rischio psicosomatico" in eta' evolutiva sulla base di fenomeni "antecedenti", come stati di disorganizzazione e manifestazioni di tipo allergico, accanto a "fattori ambientali scatenanti", come un sovraccarico di eccitazioni o viceversa una carenza di stimolazioni o una condizione di frustrazione permanente.
Per quanto riguarda piu' specificamente le disfunzioni del sistema immunitario, queste da un lato appaiono particolarmente influenzate dalle vicende relative a stati mentali, e dall'altro risultano sempre piu' coinvolte in numerose situazioni di patologia somatica. In una recente rassegna degli studi sulle patologie da deficit della funzione immunitaria - biologicamente articolata in base alla specificita' della risposta e alla memoria del sistema immunitario - Solano e Coda (1994) evidenziano che "un approccio multifattoriale alla situazione psicosociale dei soggetti" permette di rilevare significative interazioni tra variabili diverse, sia di natura ambientale che individuale, che correlano con situazioni di depressione del sistema immunitario (op.cit., p.5). Gli autori, in particolare, riportano tra i fattori di rischio eventi stressanti definiti in termini di qualita' e quantita' delle emozioni, nonche' in termini di relazioni interpersonali (perdita di una persona cara, separazione o divorzio, vissuto di solitudine, ecc.).
Vorremmo a questo punto delineare brevemente due aree della ricerca psicodinamica tradizionale sulle relazioni mente-corpo che ci sembrano particolarmente pertinenti a un intervento psicologico rivolto a pazienti affetti da Lupus Eritematoso Sistemico.
A) L'area del riconoscimento e della categorizzazione mentale delle emozioni: quasi tutti gli autori psicoanalitici sottolineano la mancanza di mediazione simbolica del sintomo somatico, dove il corpo malato diventa in qualche modo "estraneo" alle capacita' di comprensione della mente e puo' venire utilizzato per inviare segnali e richieste al mondo esterno (Khan, 1983, pp.58-59).
D'altra parte, i sentimenti ostili rivolti ad un "esterno colpevolizzante o minaccioso" nonche' le emozioni negative riferite "al timore di perdere la propria identita' soggettiva o addirittura la vita" troverebbero una collocazione nel corpo come "cosa" appartenente ad un mondo esterno sconosciuto (Mc Dougall, 1989, pp.67-68). Le difficolta' di riconoscimento delle emozioni rilevate nei soggetti affetti da gravi disturbi psicosomatici (cfr. Trabucco et al., 1988), hanno sostenuto l'ipotesi di un impedimento ad esprimere e a scambiare le emozioni nel gioco costante delle interazioni personali (alessitimia ), indicando la funzione di un intervento psicologico-clinico nella direzione di un apprendimento a utilizzare le parole quali "contenitori" delle emozioni (Ricci Bitti, Caterina, 1990). Anche la letteratura sui disturbi somatici dell'infanzia sottolinea la presenza di un "funzionamento vuoto", caratterizzato da notevole poverta' espressiva degli affetti e da una marcata indistinzione nelle relazioni interpersonali (Kreisler, 1985b).
B) L'area della differenziazione tra se' e gli altri: la nozione di "Io-pelle" introdotta da Anzieu (1985) si riferisce appunto ai fantasmi relativi al contatto e alla separazione, che contribuiscono alla costruzione di un involucro protettivo e differenziante, originato nella reciproca regolazione della diade madre-bambino (op.cit;, pp.79-83). Tra altre funzioni, l'autore attribuisce all'Io-pelle anche una funzione immunologica, che, nei fenomeni di autoimmunita', presenta un'inversione dei segnali di sicurezza e di pericolo: "la familiarita', anziche' protettiva e rassicurante, e' rifuggita come cattiva e l'estraneita', anziche' inquietante, si rivela attraente" (ivi, p.134). A questo proposito, la frequente insorgenza del Lupus Eritematoso Sistemico in adolescenza ci induce a riflettere sui compiti adattivi centrali in questa fase del ciclo di vita: la spinta ad una complessiva riorganizzazione del senso di identita' personale propria dell'eta' adolescenziale comporta una riattivazione del processo di separazione-individuazione, che "rompe il delicato equilibrio fondato sul falso Se'" (Giaconia, 1989, p.906). Le disfunzioni somatiche possono esprimere in questa fase dello sviluppo psichico la ricerca di un luogo privato e protetto in cui "salvaguardare" un'identita' personale separata da quella della madre (ivi, p.908). In questo caso, pero', cosi' come in presenza di sintomi psichiatrici e di disturbi del comportamento, il sintomo offre dei confini che imprigionano l'adolescente "in una immagine negativa di se stesso", una sorta di "identita' negativa" ( e fisicamente inadeguata!) che costituisce tuttavia una specifica organizzazione relazionale (Jeammet, 1992, p.101).
Sulla base di questi elementi teorici, piuttosto schematicamente ripresi dalla letteratura, proponiamo due linee generali che possono opportunamente orientare l'intervento dello Psicologo Clinico in una struttura sanitaria finalizzata alla valutazione diagnostica e alla cura dei pazienti affetti da malattie autoimmuni:
- la prima, connessa alla funzione di facilitare la verbalizzazione e il riconoscimento delle emozioni, e' rivolta ad una ricostruzione della storia "patobiografica" che permetta di illuminare circostanze e nessi, solo in apparenza insignificanti sia per il medico che per il paziente, allo scopo di colmare quelle che Scoppola (1990) definisce le "aree lacunari di integrazione" nella narrazione e nell'organizzazione mentale sottostante;
- la seconda, centrata sulla relazione con il medico, con la struttura sanitaria e con lo stesso psicologo, e' rivolta a creare, attraverso la costituzione della triade paziente-medico-psicologo osservatore, uno spazio di contenimento e di riflessione sulla richiesta di cura e sulle aspettative reciproche che informano il dialogo fra medico e paziente.
Le relazioni che intercorrono tra fattori psicosociali e parametri immunitari fanno parte di una vasta area di ricerca appartenente ad una scienza recente come nascita e denominata psicoimmunologia.
Per una comprensione sufficientemente esaustiva della materia e per la descrizione delle interfaccie psico-biologiche esistenti tra sistema nervoso centrale, sistema immunitario, sistema endocrino e la dimensione emozionale-relazionale rimandiamo all'ottimo testo di Solano e Coda (1994).
Basti qui ricordare che con il termine "Psicoimmunologia" e' stata definita " la disciplina che studia in modo sistematico il sistema immunitario quale sistema in grado di reagire e modificare la sua reattivita' anche sulla base delle interazioni tra individuo e ambiente mediate dal sistema nervoso relazionale " (Biondi, 1984).
Le prime ricerche, focalizzando l'attenzione sugli stressors fisici ( Fischer,1972; Kinzey 1975; Palmblad, 1976 ), avevano condotto ad ipotizzare un'influenza dello stress sui processi immunitari.
Solo piu' recentemente, tuttavia, si e' avanzata l'ipotesi che il fattore di stress psicosociale potesse aumentare la predisposizione di un individuo verso determinate categorie di malattie quali quelle infettive, autoimmuni, neoplastiche e da deficit immunitario. Una serie di studi sono stati condotti per valutare le relazioni tra i fattori psicosociali e i processi immunitari. Alcune ricerche hanno preso in considerazione la variazione del numero delle cellule appartenenti al sistema immunitario, in particolare dei linfociti e delle cellule NK ( Natural Killer ) .
Mc Kinnon (1989), aveva osservato un basso numero di linfociti T-suppressor in individui che vivevano una condizione di stress cronico; mentre Kemeny (1989), metteva in evidenza come l'esposizione agli stressors diminuisse anche la percentuale delle cellule T-Helper e T-Suppressor. Anche molti degli studi riguardanti gli affetti di un individuo e l'importante ruolo che occupano come mediatori nei confronti del sistema immunitario hanno utilizzato come parametro il numero dei linfociti.
Kemeny (1989), osservo' una diminuzione delle cellule T-Suppressor associata ad alti livelli di depressione, e cosi' anche Schleifer (1984, 1985) per quello che riguardava le cellule T totali; e sempre Kemeny ( 1989 ) aveva notato la stessa diminuzione di cellule T-Suppressor associata pero' ad alti livelli di ansia e di odio.
Anche l'eccessivo attaccamento ad un ex-coniuge fu associato ad una diminuzione, (Kiecolt-Glaser et al. 1987 ) questa volta pero' nella percentuale di cellule T-Helper; e sempre la stessa ricerca noto' che nelle esperienze di separazione e di divorzio la diminuzione si osservava nella percentuale di cellule NK.
Un altro parametro che e' stato preso in considerazione dai ricercatori e' l'attivita' citotossica delle cellule NK. Questa attivita' subisce dei cali sia in presenza di un alto numero dei cosiddetti " eventi della vita ", (importanti situazioni di cambiamento), come risulta da uno studio di Irwin et al. (1986, 1987a), sia a causa di stressors accademici (Glaser, 1986) e di lutti parentali (Irwin et al. 1987b).
Tutti gli studi citati tendono a dimostrare, attraverso i loro risultati, che esiste un' indubbia correlazione tra gli stressors e i processi immunitari, soprattutto a livello soppressivo, e che alcune variabili quali gli affetti, la solitudine, il conflitto e il supporto sociale possono influenzare queste relazioni. Sebbene risulti abbastanza evidente dai risultati di questi studi che gli stressors psicosociali hanno un effetto negativo sul sistema immunitario, esistono pero' alcuni problemi metodologici associati agli studi stessi. Uno di questi problemi riguarda la casualita' nella scelta dei soggetti, che, per quanto riguarda le ricerche sulla relazione tra stressors, parametri immunologici e malattie, risulta molto difficile da effettuare nell'ambito di settings naturali. Sarebbe piu' opportuno, quindi, in questi casi utilizzare un metodo di studio longitudinale con una raccolta dati effettuata in diversi momenti, per poter effettivamente dimostrare la successione temporale e causale tra stressors, cambiamenti nei parametri immunologici e malattie. Dobbiamo invece annotare che soltanto la meta', piu' o meno, delle ricerche effettuate intorno a questo argomento ha utilizzato un metodo comprendente la raccolta di piu' misurazioni prese in diversi momenti dell'esperimento. Risulta molto difficile, infatti, avendo trovato in un soggetto un basso livello di immunoglobulina e correlandolo con una malattia avuta negli ultimi due mesi, stabilire se le immunoglobuline sono basse per colpa della malattia, se invece il soggetto ha contratto una malattia proprio a causa dei bassi livelli immunologici o se addirittura esiste un'altra variabile che ha influenzato le prime due. Non possiamo quindi, alla luce di queste riflessioni, dire con precisione che cosa influenzi chi, ma possiamo certamente affermare che c'e' una concomitanza di vari fattori psicosociali, tra cui gli affetti negativi, l'ira e l'ansia solo per citarne alcuni, la che risultano correlati a variazioni dei parametri immunologici di ogni individuo. Va aggiunto che negli ultimi anni si sta dando un'importanza sempre maggiore, oltre agli eventi di vita cosiddetti 'importanti ", anche alle piccole seccature quotidiane, le " hassles ", quali possono essere delle lunghe file in banca o alla posta, dei tempi lunghi per trovare un parcheggio o difficolta' burocratiche di vario genere ( Kanner et al., 1980 ). L'accumulo di microtraumi di questo tipo potrebbe avere un peso equivalente, o addirittura superiore, a quello di un importante evento di vita.
Le ricerche fin qui esaminate, per la maggior parte sembrano individuare un modello di funzionamento generale secondo il quale, molto schematicamente, una configurazione di eventi stressanti (sul piano emozionale, relazionale e fisico) sembrano collegarsi ad una diminuita funzionalita' del sistema immunitario, in termine di diminuzione dei valori quantitativi dei linfociti deputati alla risposta difensiva immunitaria. La conseguenza sarebbe una minore predisposizione dell'organismo a difendersi da agenti patogeni esterni.
Le malattie autoimmuni costituiscono una sfida particolare, perche' mettono in crisi i modelli interpretativi basati sulle analisi quantitative.
Mentre sembra oramai essere dimostrato un coinvolgimento relazionale-emozionale nella malattie autoimmuni, questo non puo' essere interpretato nella direzione tradizionale, visto che il sistema immunitario, lungi dal deprimere la sua attivita', diventa in questo caso iperattivo, arrivando a coinvolgere nella risposta immunitaria anche il Se'. Occorre quindi costruire modelli interpretativi piu' complessi, che si basino maggiormente sugli assi regolazione - disregolazione e riconoscimento - confusione del Se' dal Non-Se' della risposta immunitaria.
La nascita del concetto relativo all'esistenza di una patologia autoimmune si puo' collocare intorno al 1956, e cioe' all'anno in cui vennero scoperti, nel siero di pazienti affetti da tiroidite di Hashimoto, autoanticorpi che reagivano con la tireoglobulina (Roitt et al.. 1956 ).
Era un concetto che non si conciliava con il dogma, fino ad allora riconosciuto valido, dell' horror autotoxicus, formulato da Ehrlich (1900), ne' con quei principi che vedevano nella natura un'armonia tale da non poter essere rotta con meccanismi di aggressione del Se' da parte del sistema immunitario.
Si assistette in seguito, a partire dal 1960, ad una vera e propria "rilettura", spesso in modo esagerato o addirittura errato, per quello che riguardava l'eziopatogenesi di determinate malattie ritenute, fino ad allora, sconosciute.
Bisogna attendere la fine degli anni settanta per poter avere una definizione piu' precisa riguardo alle malattie autoimmuni e distinguerle da quelle che sono le "risposte autoimmunitarie ", da cui invece derivano come conseguenza patologica.
Dobbiamo prima di tutto fare una distinzione tra:
- autoriconoscimento
- risposta autoimmunitaria
- malattia autoimmune
L'autoriconoscimento, che e' ormai considerato come una caratteristica normale e costante del sistema immunitario, e che rappresenta un fenomeno fisiologico essenziale nell'omeostasi dell'immunita' e nel controllo delle risposte immunitarie, non e' altro che il riconoscimento, da parte delle cellule immunocompetenti, di cio' che e' " self ".
E' stato accertato infatti (Serafini e Masala , 1977) che esistono dei linfociti in grado di riconoscere autoantigeni; e proprio questo riconoscimento e' anzi un requisito indispensabile (almeno nel topo) affinche' ci sia una risposta immunitaria rivolta verso antigeni virali ( Zinkernagel, 1977 ).
La risposta autoimmunitaria invece puo' assumere significati differenti.
Spesso infatti la risposta autoimmunitaria rappresenta un fenomeno secondario e privo di un rilevante significato patogenetico; a sostegno di questa affermazione possiamo citare alcuni esempi quali la transitoria comparsa in circolo di autoanticorpi in soggetti con infarto del miocardio, oppure di autoanticorpi antimuscolo liscio nella gran parte delle virosi acute; di anticorpi antinucleari nell'epatite indotta da virus di tipo A o B, e di anticorpi anticute negli ustionati gravi.
La denominazione " malattia autoimmune ", dovrebbe riguardare soltanto quei casi in cui le alterazioni strutturali e funzionali sono causate da risposte immunitarie rivolte verso costituenti propri dell'organismo.
Il prototipo delle malattie autoimmuni cosi' definite viene considerato il " Lupus Eritematoso Sistemico " (Systemic Lupus Erithematosus).
" A complex disorder of obscur origin ".
Cosi' Dameshek (1958 ) definiva il Lupus Eritematoso Sistemico manifestando in modo conciso quella difficolta' che si incontra tuttora nel tentativo di dare una definizione precisa di questa malattia.
Il termine stesso LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO ("lupus" riferito alle lesioni cutanee di tipo ulceroso simili al morso di un lupo; "eritematoso" per qualificare il rossore delle suddette lesioni; "sistemico" perche' il processo morboso e' generalizzato a vari organi e apparati ) appare insoddisfacente e oltre tutto inappropriato in quanto non tutti i casi presentano lesioni cutanee e comunque la condizione morbosa del Lupus Eritematoso Sistemico riguarda un disordine generalizzato sistemico del collagene.
D'altronde non e' possibile applicare dei criteri eziologici per definire la malattia in quanto ne risultano polideterminate le cause, e nemmeno dei criteri clinici , a causa dell'interessamento di molti organi e apparati; gli stessi autoanticorpi rivolti verso il DNA nativo, considerati specifici per il Lupus Eritematoso Sistemico, non sono esclusivi di questa malattia, essendo stati trovati anche in casi di epatite cronica attiva, di artrite reumatoide e di morbo di Sjogren, e spesso risultano addirittura assenti.
In base quindi anche alle piu' recenti acquisizioni sugli aspetti immunologici della malattia, si cerca di dare una definizione basata anche su dei criteri eziopatogenetici; quella formulata dalla "Enciclopedia Medica Italiana Uses" e' la seguente: malattia multifattoriale a patogenesi prevalentemente (auto) immunologica, con interessamento multisistemico e manifestazioni cliniche proteiformi tra cui, per frequenza, predominano le poliartralgie o le poliartriti non-erosive e, di solito, non-deformanti , problemi dermatologici, ematologici, complicazioni renali e del sistema nervoso centrale.".
Per molte persone il Lupus e' una malattia cronica che colpisce alcuni organi ma che puo' essere sufficientemente contenuta da un adeguato regime terapeutico; per altri invece si possono porre problemi di salute anche gravi e perfino a rischio di vita.
La diagnosi di Lupus e' troppo spesso tardiva, sia a causa del suo carattere sistemico, per il quale puo' manifestarsi nelle forme piu' varie, secondo gli organi colpiti dall'attacco autoanticorpale, sia a causa della disinformazione purtroppo ancora esistente nel mondo sanitario.
Il test clinico maggiormente indicativo della diagnosi di Lupus e' l'analisi degli anticorpi - antinucleo (ANA): questo test risulta positivo praticamente nella totalita' di pazienti con il Lupus eritematoso Sistemico. La positivita' al test ANA accompagnata dalla presenza di sintomi caratteristici del Lupus, difficilmente puo' portare ad una diagnosi dubbia. Il trattamento puo' essere iniziato rapidamente e spesso porta ad una regressione drammatica della sintomatologia. Il trattamento si basa sulla sintomatologia specifica, orientandosi tuttavia principalmente sull'assunzione di antiinfiammatori steroidei, di antimalarici e di farmaci citotosici, depressori della risposta immunitaria.
A livello epidemiologico si puo' dire che il Lupus Eritematoso Sistemico e' conosciuto in tutte le parti del mondo, e per quanto siano scarsi gli studi sulla sua distribuzione geografica, non sono state dimostrate particolari aggregazioni in determinati paesi . Il numero delle persone colpite e' inaspettatamente alto rispetto alla relativamente scarsa diffusione di conoscenze sulla malattia: negli USA sono colpite da Lupus 1.400.000-2.000.000 di persone, un numero maggiore delle persone colpite da AIDS, Fibrosi Cistica e Sclerosi Multipla insieme.
Sostanziali differenze, nell'incidenza del morbo, non si riscontrano nella diversita' delle condizioni socioeconomiche; tuttavia sembra confermato il piu' alto indice di malattia e di mortalita' nelle donne di razza negra (circa 3 volte superiore) rispetto alle donne bianche della stessa eta', e, soprattutto, nelle donne rispetto agli uomini.
Il rapporto donne-uomini, infatti, varia, a seconda delle diverse casistiche e dell'eta' dei pazienti colpiti dal Lupus Eritematoso Sistemico, da 3:1 a 9:1 , e puo' colpire a tutte le eta', anche se la preferenza e' per la fascia compresa tra i quindici e i trentacinque anni.
Un ruolo di primaria importanza, per quanto riguarda la patogenesi del Lupus Eritematoso Sistemico, spetta sicuramente alle risposte immunitarie che sono rivolte verso dei costituenti autoantigenici dell'organismo.
Le lesioni fondamentali della malattia, infatti, sembrerebbero proprio dovute alla formazione di complessi immuni autoantigene-autoanticorpo che possono essere anche i diretti responsabili delle manifestazioni emolitiche, leucopeniche e piastrinopeniche spesso associate al Lupus Eritematoso Sistemico.
Tuttavia restano ancora sconosciute le reali cause eziologiche di questa malattia, e la tesi attuale, prevalentemente accettata, che essa sia una malattia multifattoriale nella quale intervengono sia fattori predisponenti, che possono essere genetici ed endocrini, sia dei probabili fattori efficienti, quali potrebbero essere i virus, sia dei fattori scatenanti o aggravanti come radiazioni e medicamenti, i quali , combinandosi tra di loro , assumono un ruolo di primaria importanza nella eziopatogenesi della malattia.
Una delle principali modalita' con cui i fattori genetici intervengono nella eziopatogenesi del Lupus Eritematoso Sistemico, e' costituita da anomalie della omeostasi immunitaria.
Il concetto prevalente e' quello secondo cui il maggiore disordine immunoregolatorio del Lupus Eritematoso Sistemico consiste in una eccessiva proliferazione, differenziazione e attivita' delle cellule B che porta, nella maggioranza dei casi, ad ipergammaglobulinemia e alla formazione di autoanticorpi.
Nei pazienti Lupus Eritematoso Sistemico in fase attiva , infatti, il numero delle cellule B secernenti IgG e IgA e' circa dieci volte superiore a quello dei soggetti normali.
Nonostante le numerose indagini effettuate, le basi cellulari e molecolari di questa iperattivita' sono ancora poco conosciute.
Esistono delle anomalie dell'attivita' delle cellule T, sia come eccessiva funzione delle cellule T-Helper sia come deficit a carico di quelle T-Suppressor, ma sembra che queste anomalie non siano riscontrabili in tutti i pazienti.
Le cellule B autoreattive possono anche essere attivate, in mancanza della cooperazione delle cellule T, da molteplici sostanze sia endogene che esogene, il cui numero sta diventando, man mano che vengono scoperte, sempre piu' alto.
Sulla base di questi dati puo' essere fatta, in accordo con Theofilopoulos e Dixon (1985), una suddivisione in almeno due grandi sottogruppi: il Lupus Eritematoso Sistemico di tipo I°, caratterizzato da un difetto genetico delle cellule B, con conseguente eccessiva ed incontrollata attivazione e proliferazione delle stesse; ed il Lupus Eritematoso Sistemico di tipo II, nel quale le cellule B sono normali, ma vengono cronicamente stimolate a proliferare e a secernere immunoglobuline dalle cellule T-Helper o da altri fattori.
E' stato precedentemente trattato il ruolo importantissimo che alcuni eventi stressanti esistenziali esercitano all'interno del meccanismo del sistema immunitario.
Soprattutto riguardo alle malattie reumatiche, in particolare alla Artrite Reumatoide, diversi autori avevano gia' messo in risalto l'importanza di questi eventi stressanti, principalmente eventi di separazione e perdita, riguardo al fatto che in alte percentuali di casi essi precedevano l'insorgere della malattia.
Per quanto concerne gli studi sul rapporto tra stress e Lupus Eritematoso Sistemico, che per la verita' non sono molti, sono emersi dati molto interessanti e, in alcuni casi, quasi inattesi.
Viene spesso usato, come gruppo di controllo nelle ricerche riguardanti il LES, proprio quello comprendente soggetti sofferenti di Artrite Reumatoide, data l'enorme affinita' che esiste tra le due malattie nella patologia, che interessa in entrambe il tessuto connettivo.
Nella prima ricerca che prendiamo in esame, infatti, condotta da Morbidelli e altri (1986), viene utilizzato proprio un confronto tra LES e Artrite Reumatoide ( AR ), sia dal punto di vista clinico che da quello psichiatrico, rilevando, mediante appositi test, anche il numero e la qualita' degli eventi stressanti che appartengono alla storia dei singoli soggetti, per poter individuare una qualche specificita' a livello del LES. Prendendo in considerazione i dati della seconda parte della ricerca, quella che ci interessa piu' direttamente, notiamo che, mentre non si riscontrano differenze statisticamente significative tra i due gruppi per quello che riguarda gli eventi stressanti in generale, considerando solo gli eventi di separazione e perdita, il gruppo di pazienti LES ha mostrato un numero nettamente piu' alto di casi nei tre anni precedenti la malattia: 7 casi su 15 nel LES, contro 3 casi su 15 nella AR. Addirittura, in 4 casi del gruppo LES, l'evento di perdita aveva immediatamente preceduto la comparsa dei primi sintomi della malattia. L'interpretazione di questo dato non deve pero' portare alla conclusione che esista un rapporto di causa-effetto tra evento di perdita e malattia, perche' altri studi hanno rilevato una incidenza simile di questo fenomeno anche in malattie come il tumore alla mammella e la rettocolite ulcerosa. Bisogna tuttavia sottolineare che in quelle malattie, nella cui anamnesi vi sia una significativa incidenza di eventi di perdita, vi sono delle caratteristiche comuni anche al LES: sono principalmente malattie con una eziologia sconosciuta; sono quasi tutte di tipo cronico e hanno nella loro patogenesi un interessamento del sistema immunitario. Tra queste, comunque, il LES sembra essere la malattia che ha tra le piu' alte incidenze di avvenimenti di perdita nel periodo precedente la malattia; la possibilita', quindi, di una stretta associazione tra le alterazioni del sistema immunitario e alcune alterazioni biologiche, prodotte dalla probabile attivazione emozionale dovuta all'evento di perdita di una relazione significativa, e' quantomeno da prendere in considerazione.
Un' altra ricerca sul rapporto tra stressors giornalieri e LES e' quella compiuta da E. M. Wekking e altri (1991), dove sono emersi, come risultati piu' marcati, quelli che indicano un calo dello stato di salute fisica e psicosociale nei pazienti LES con l'aumentare del numero e dell'intensita' degli stressors giornalieri.
Nello studio di Hinrichsen, Folsch e Kirch, pubblicato nel 1992, si potrebbe trovare una parziale conferma della possibile esistenza di questa relazione. E' risultato infatti, dalla loro ricerca, che dopo uno stress fisico e psicologico, nonostante sia stato rilevato, oltre che nei gruppi di controllo, anche nei pazienti LES un aumento delle catecolamine, in questi ultimi veniva a mancare pero' una adeguata risposta immunologica; l'alterazione dei linfociti, infatti, era molto meno pronunciata rispetto agli altri gruppi. Questa minore reattivita' linfocitaria dei malati LES a situazioni di stress sia fisico che psicologico, dovrebbe essere un dato da prendere in considerazione.
Altra conferma alle ipotesi che ci vengono suggerite da questi studi, deriva anche dalla riesamina e valutazione di 21 studi sul Lupus Eritematoso Sistemico, con prevalenza di sintomi psichiatrici, compiuta sempre da Wekking (1993 ). I dati suggeriscono una relazione tra percezione della gravita' della malattia ed esperienze di stressors psicosociali. Gli studi effettuati sui gruppi di controllo ( pazienti con altri disturbi cronici ) mostrano sorprendenti somiglianze tra entrambi i gruppi di pazienti. Viene comunque evidenziato che una parte della sintomatologia psichiatrica, le psicosi in particolare, dipendono dalle disfunzioni neurologiche del Lupus Eritematoso Sistemico.
Hay, Black e altri (1992) hanno condotto un lavoro su 73 pazienti malati di LES per cercare l'esistenza di una possibile relazione tra disturbi psichiatrici e stress sociale, danno cognitivo, terapia corticosteroide, danneggiamento provocato dalla malattia; i disturbi psichiatrici furono riscontrati in 15 pazienti, ed erano significativamente correlati, anche in questo caso, con stress sociale e mancanza di supporto sociale.
Adams e altri ( 1994 ) hanno effettuato invece una ricerca sul ruolo predittivo di grandi e piccoli eventi di vita stressanti, rabbia, depressione ed ansia nella sintomatologia soggettiva di 41 pazienti con Lupus Eritematoso Sistemico. I soggetti compilarono il Life Experiences Survey, il Daily Stress Inventory, il Symptom History ed il Daily Symptom. Furono effettuate regressioni per valutare la relazione tra stress, depressione, ansia, rabbia e sintomi Lupus Eritematoso Sistemico accusati, e il peso negativo di grandi eventi di vita nella predizione dei sintomi. Si e' rivelata una notevole variabilita' individuale nella relazione stress-malattia. I risultati suggeriscono che lo stress, la depressione, l'ansia e la rabbia sono associate con e possono aggravare la sintomatologia soggettiva di pazienti Lupus Eritematoso Sistemico. Il ruolo piu' importante, in questa relazione, lo giocano gli stress minori rispetto ai grandi eventi di vita.
Un altro filone di studi, invece, si e' dedicato alla ricerca di eventuali altre cause di possibile danno neuropsicologico per i pazienti affetti da Lupus Eritematoso Sistemico.
Carbotte e altri (1992 ), per esempio, hanno effettuato uno studio sulle anomale fluttuazioni cognitive nel Lupus Eritematoso Sistemico psichiatrico. I risultati di questa ricerca su 3 donne con Lupus Eritematoso Sistemico neuropsichiatrico supportano l'ipotesi che il deficit cognitivo nei pazienti Lupus Eritematoso Sistemico rifletta primariamente un coinvolgimento del sistema nervoso centrale.
Nello studio di Futrell e altri (1992 ) vengono esaminati 91 soggetti con Lupus Eritematoso Sistemico, 63 dei quali con disturbi del sistema nervoso centrale.Riunendo i soggetti in gruppi clinici relativamente omogenei, (attacco, tentativi di suicidio, allucinazioni, confusione e diminuzione della vigilanza) furono trovate correlazioni significative con altre manifestazioni del Lupus Eritematoso Sistemico, proponendo cosi' meccanismi separati per ogni disturbo del sistema nervoso centrale. Queste correlazioni sparivano se tutti i pazienti venivano considerati come un solo gruppo. I soggetti con diminuzione della vigilanza spesso avevano una infezione sistemica non rilevata ed un' alta percentuale di mortalita' provocata dall'infezione stessa piuttosto che dal cosiddetto Neuro-LES, ovvero il coinvolgimento del SNC nell'attacco autoanticorpale. Ne viene dedotto che la comprensione della patogenesi ed il potenziale trattamento dei disturbi del sistema nervoso centrale nel Lupus Eritematoso Sistemico, dipendono dal riuscire a classificare i pazienti in gruppi omogenei.
Choraku e altri (1990 ) riportano i risultati dello studio di un caso di un uomo di 39 anni al quale era stato diagnosticato un Lupus Eritematoso Sistemico da tre anni, e che durante il periodo di trattamento con steroidi sviluppo' una psicosi-LES con forti allucinazioni, regressioni della personalita' e comportamento pericoloso. In seguito ad uno di questi attacchi psicotici egli scappo' dall'ospedale e prese un medico in ostaggio. Dopo questo incidente fu trattato con neurolettici in aggiunta ad un piu' alto dosaggio di corticosteroidi. Dopo sette mesi di trattamento il paziente mostro' una remissione completa. Il caso puo' essere considerato un tipo di psicosi lupus-indotta. .
Da Wekking e altri (1991 ) e' stato condotto uno studio per determinare se 9 pazienti con NEURO-Lupus Eritematoso Sistemico mostrino piu' disturbi cognitivi ed emozionali di 11 pazienti Lupus Eritematoso Sistemico senza danno cerebrale e 20 pazienti con Artrite Reumatoide. I risultati evidenziano che i soggetti con NEURO-Lupus Eritematoso Sistemico riescono meno bene in due subtest sulla concentrazione rispetto agli altri due gruppi ed hanno un punteggio piu' alto in tre scale psicopatologiche ( sintomi di personalita' borderline, sintomi distimici e depressione psicotica ).
Anche Van Dam (1991) ha compiuto uno studio sui sintomi psichiatrici, evidenziandoli come caratteristica significativamente presente nel Lupus Eritematoso Sistemico.
Un'inchiesta della DUTCH LUPUS PATIENTS SOCIETY ha rivelato che il 49% dei membri ha avuto sintomi psichiatrici prima che il Lupus Eritematoso Sistemico fosse loro diagnosticato, ed il 33% ha cercato un aiuto psichiatrico specialistico. Per determinare la frequenza del Lupus Eritematoso Sistemico nell'accettazione psichiatrica, furono testati 2121 pazienti per la presenza di anticorpi anti-dna ed antinucleari LES-specifici. 63 soggetti con dna antinucleare e 73 soggetti psichiatrici di controllo parteciparono ad una somministrazione di tests. Dei 20 pazienti con Lupus Eritematoso Sistemico, 11 avevano sintomi di NEURO-LES. I risultati suggeriscono che il Lupus Eritematoso Sistemico e' una causa di ricovero in ospedale psichiatrico nell' 1 - 2 % dei casi; e che lo screening degli anticorpi antinucleari ed anti-dna non costituisce un valido approccio diagnostico in psichiatria.
Kutner, nel 1988, ha comparato la funzionalita' neuropsicologica tra 22 pazienti con Lupus Eritematoso Sistemico, 10 pazienti con Artrite Reumatoide e 9 soggetti di controllo. I soggetti con Lupus Eritematoso Sistemico hanno mostrato una maggiore difficolta' visuomotoria degli altri gruppi, e piu' difficolta' di ragionamenti complessi del gruppo di controllo. I soggetti Lupus Eritematoso Sistemico hanno anche ottenuto un punteggio piu' basso del gruppo di controllo nella performance tattile.
Cornwell (1990 ) ha invece esaminato la percezione dello stato di salute, l'autostima e l'immagine corporea in donne con Artrite Reumatoide o con Lupus Eritematoso Sistemico. E' stato usato un sistema descrittivo comparativo incrociato con 26 donne con Artrite Reumatoide , 23 donne con Lupus Eritematoso Sistemico e 28 donne sane per esaminare: 1) la relazione tra la malattia e la percezione dello stato di salute, autostima e immagine corporea; 2) la relazione tra stato di salute, autostima e immagine corporea; 3) la relazione tra stato di salute, autostima, immagine corporea e l'eta' ed il tempo trascorso dalla diagnosi. Tutti i soggetti avevano un eta' compresa tra 24 e 79 anni. Differenze sulla percezione dello stato di salute furono trovate tra soggetti sani e malati, non erano invece significative le differenze sull'autostima; i soggetti Lupus Eritematoso Sistemico avevano un punteggio piu' basso nell'immagine corporea rispetto agli altri gruppi. La percezione dello stato di salute era direttamente correlata all'autostima, ma non all'immagine corporea. Eta' e tempo dalla diagnosi erano debolmente positivamente correlate con la percezione dello stato di salute.
In conclusione citiamo una ricerca di Braden (1991) riguardante i modelli di cambiamento nel tempo nella risposta di apprendimento verso la malattia cronica tra i partecipanti ad un corso di auto-aiuto Lupus Eritematoso Sistemico. In questa ricerca viene esaminata la risposta di apprendimento verso l'esperienza della malattia cronica di 201 persone (eta' 19-83 anni) con Lupus Eritematoso Sistemico, che avevano partecipato ad un corso di auto-aiuto. I soggetti dimostrarono un cambiamento significativo nel tempo nella risposta di apprendimento. Le variabili del modello di auto-aiuto che avevano contribuito significativamente al cambiamento erano: insicurezza, depressione, abilita' gestionale, padronanza di se' e autostima. L'insicurezza e la depressione diminuirono col tempo, mentre abilita' gestionale, padronanza di se' ed autostima aumentarono. I soggetti dimostrarono anche un aumento significativo, nel corso di auto-aiuto, delle variabili di conoscenza del Lupus Eritematoso Sistemico, e dedicarono piu' tempo al riposo, al rilassamento e all'esercizio fisico.
Per commentare brevemente possiamo dire, riguardo al filone di studi concernenti il rapporto tra stress e Lupus Eritematoso Sistemico, che il modello stimolo-risposta appare ormai sempre piu' inadeguato, e che "non solo il ricordo di un evento, ma la stessa percezione di uno stimolo sono processi altamente costruttivi" (Solano, Coda, 1994 ).
Sono stati fatti molti tentativi, negli ultimi anni, per trovare una possibile quantificazione del peso degli eventi stressanti sulla eventuale modificazione psico-biologica. Gli stessi Life Change Units, (Holmes e Rahe, 1967), ossia la quantita' di cambiamenti avvenuti nella vita di un paziente nell'unita' di tempo, sono risultati in rapporto con l'incidenza e con la gravita' di diverse patologie (cardiovascolari, TBC, diabete, ulcera duodenale etc.), ma si sono dimostrati scarsamente attendibili negli studi retrospettivi o trasversali. In effetti non si puo' considerare in modo obiettivo il ricordo che una persona, nello stato attuale di malattia, ha di un evento passato. Una delle critiche mosse agli studi sulla correlazione tra eventi di vita stressanti e stato di salute, era che proprio il livello di correlazione ha raramente superato lo 0.30 (Rabkin e Struening, 1976; Rahe e Arthur, 1978) ; inoltre si potrebbe obiettare che ci sono molte persone le quali, pur avendo subito molti eventi di vita importanti, non si sono ammalate. In base ad alcuni dati clinico-sperimentali infatti (Chiriboga, 1977) e' emerso che nel riequilibrio di un individuo, dopo l'impatto con un evento stressante, il fattore piu' importante consisteva nella percezione soggettiva dell'evento stesso, piu' che nel suo peso valutato in modo assoluto.
Lazarus (1966) aveva per primo dato importanza, piu' che alla valutazione individuale dell'evento, al modo in cui il soggetto affrontava quell'evento medesimo, e successivamente Antonovsky (1979) introdusse il concetto di risorse di resistenza nei confronti degli eventi stressanti. In seguito venne adottato, e piu' comunemente usato, il termine di buffer (tampone) per indicare una situazione che fosse in grado di neutralizzare gli effetti di un'altra. Questo tipo di risorse individuali fanno leva, da un lato, su caratteristiche di personalita', dall'altro sulla qualita' delle relazioni sociali instaurate.
La capacita' di resistenza individuale, definita HARDINESS, e' stata articolata in tre tipologie ( Kobasa, 1979 ) :
- COMMITMENT ( impegno ), che indica la capacita' di ognuno di credere in se' stesso e nelle proprie possibilita', la sensazione di essere coinvolto nella propria vita emozionale e la capacita', quindi, di impegnarsi in pieno nei rapporti di lavoro, familiari o interpersonali in generale, nonche' il saper individuare, nell'arco della propria esistenza, degli obiettivi o comunque delle priorita'.
- CONTROL ( controllo ), fa si' che ognuno si assuma la piena responsabilita' degli eventi della propria vita, piuttosto che attribuirli a forze esterne quali il destino o il caso, e chi lo possiede si sente fiducioso di poter influenzare quegli stessi eventi a proprio vantaggio.
- CHALLENGE ( sfida ), evidenzia una tendenza al cambiamento piuttosto che alla stabilita', e le persone che posseggono questa caratteristica vedono nell'evento " stressante " una ulteriore possibilita' di sviluppo personale piuttosto che una minaccia alla loro tranquillita'; e quindi sono continuamente alla ricerca di esperienze nuove e stimolanti.
In una ricerca Kobasa et al.. (1982a ) riscontrarono una interazione tra gli eventi stressanti e la hardiness. Se, da un lato, l'effetto degli eventi stressanti non risulto', di per se', significativo, in presenza pero' di un elevato numero dei suddetti eventi, i soggetti dotati di bassa hardiness riportarono un punteggio di malattia piu' o meno doppio di quelli dotati di alta hardiness. I soggetti, invece, che riportavano pochi eventi stressanti avevano tutti un basso punteggio di malattia, a prescindere dalla hardiness, che quindi aveva influenzato soltanto il gruppo ad alto stress. Un'interazione tra hardiness, eventi stressanti e sostegno familiare venne riscontrata da Kobasa e Puccetti ( 1983 ) in uno studio dove ad ammalarsi di piu' furono gli individui che, in presenza di un elevato livello di stress e dotati di bassa hardiness, percepivano un elevato sostegno da parte della famiglia, mentre coloro che, in presenza di un basso livello di stress, erano dotati di alta hardiness e percepivano uno scarso sostegno familiare, riportavano pochi episodi di malattia. Il fatto che, in questa ricerca, il sostegno familiare avesse un effetto negativo sullo stato di salute, in presenza di eventi stressanti, venne interpretato dagli autori come il risultato dell'utilizzo del sostegno familiare, da parte delle persone con bassa hardiness, in modo regressivo.
In un'altra ricerca di Kobasa et al.. (1982b) fu riscontrato un evidente effetto " buffer " della hardiness e dell'esercizio fisico, sia separatamente che, e soprattutto, quando erano presenti entrambi. Anche in Italia Solano et al.. (1993) hanno effettuato una ricerca su di un campione di 112 allievi ufficiali, giungendo sostanzialmente a risultati simili a quelli dei lavori precedentemente descritti; sembrerebbe quindi che per gli individui dotati di alta hardiness, non solo non sia dannoso vivere degli eventi " stressanti ", ma che addirittura abbia un effetto positivo sul loro stato di salute. E' probabile, forse, che soprattutto quelle persone dotate di un alto livello sociale e culturale e che ricoprono mansioni di responsabilita', come e' emerso dalla maggior parte dei lavori, hanno bisogno, nell'arco della propria vita, di cambiamenti e di situazioni che, per loro, evidentemente non sono stressanti ma stimolanti.
Nel commentare, invece, il filone di studi riguardante i disturbi psichiatrici associati al Lupus Eritematoso Sistemico, bisogna innanzitutto dire che proprio il termine " disturbi psichiatrici " risulta troppo generico.
Julien (1970) afferma in proposito che per parlare di manifestazioni psichiatriche specifiche del Lupus Eritematoso Sistemico, devono essere soddisfatte due condizioni: assenza di precedenti disturbi della personalita' e mancata assunzione di corticoterapia. Secondo alcune casistiche risulta che il 60 % dei pazienti con Lupus Eritematoso Sistemico accusa disturbi psichiatrici, che oltretutto sono estremamente variabili da un malato all'altro, e nello stesso malato variano addirittura da episodio a episodio. Inoltre, per quello che riguarda gli aspetti eziopatogenetici dei disturbi neuropsichiatrici nel Lupus Eritematoso Sistemico, va considerato che essi sono molteplici, e di conseguenza di difficile individuazione. Esistono:
- 1) gli aspetti relativi alla patogenesi autoimmunitaria del Lupus Eritematoso Sistemico
- 2) le reazioni psicologiche alla malattia cronica
- 3) gli aspetti legati all'effetto collaterale di alcuni farmaci assunti (cortisone in particolare)
- 4) manifestazioni neuropsichiatriche dovute a danni organici propri del Lupus Eritematoso Sistemico (NEURO-LES)
- 5) eventuali aspetti riguardanti la personalita' premorbosa del paziente
Riguardo alla patogenesi autoimmunitaria del Lupus Eritematoso Sistemico possiamo citare come possibili cause:
- i depositi di immunocomplessi nei plessi corioidei e nei piccoli vasi del Sistema Nervoso Centrale ;
- gli anticorpi antilinfociti cross-reagenti con antigeni cerebrali;
- gli anticorpi antineuronali.
I depositi di immunocomplessi e di complemento nei plessi corioidei, probabilmente sono in grado di alterare la permeabilita' di queste strutture, provocando una disfunzione della neurotrasmissione a livello dei circuiti periventricolari.
Risulta inoltre ( Donini e altri, 1986) che i livelli sierici di anticorpi antineuronali e linfocitotossici cross-reagenti con il tessuto nervoso, sono piu' elevati nei pazienti con coinvolgimento del Sistema Nervoso Centrale da Lupus Eritematoso Sistemico. Il legame degli anticorpi con la superficie delle cellule nervose causerebbe, quindi, i disturbi della funzione neuronale, con o senza alterazioni anatomiche.
Per quello che concerne le reazioni psicologiche alla malattia cronica vengono riportate, principalmente, l'ansia e la depressione, ovvero le reazioni tipiche verso le difficolta' esistenziali; va detto anche che, con l'aggravarsi della malattia, esse generalmente si accentuano. Va notata la a-specificita' di tali affermazioni, valide per qualsiasi malattia cronica ma anche per qualsiasi evento significativo che determini una rottura rispetto ad un equilibrio di vita preesistente.
Riguardo, invece, alle manifestazioni psichiatriche legate alla terapia cortisonica, possiamo riscontrare che, grazie anche ad una piu' attenta somministrazione, sono attualmente rare. Esiste comunque un periodo critico di comparsa, che va dal 15° al 30° giorno di terapia, caratterizzato da stati di confusione mentale. La manifestazione piu' frequente e' lo stato di eccitazione maniacale, ma sono stati osservati anche stati oniroidi con allucinazioni soprattutto visive. Meno frequenti sono gli stati deliranti e quelli melanconici, dove tra l'altro il rischio di suicidio e' accresciuto dalla confusione mentale.
Sugli aspetti riguardanti la personalita' premorbosa dei pazienti, possiamo dire che, nonostante non risulti una correlazione tra quest'ultima e disturbi psichiatrici insorti nei pazienti Lupus Eritematoso Sistemico, e' stato pero' rilevato (Stern e Robbins, 1960) che sindromi schizofreniformi venivano descritte in persone gia' precedentemente rigide e tendenti all'ossessivita', e con storie di disagio sociale.
Il Lupus Eritematoso Sistemico, come d'altronde altre malattie ad andamento cronico, provoca, nelle persone emozioni dolorose quali ansia, rabbia, depressione, con conseguente messa in atto di vari meccanismi di difesa. Le angosce, le difese contro di esse e le difficolta' di comunicazione sono presenti infatti per tutto il decorso della malattia: dal momento della comunicazione della diagnosi si ripetono poi ad ogni controllo diagnostico e rendono piu' difficile il rapporto con le terapie e con i loro effetti collaterali, persistendo anche durante le remissioni in concomitanza di qualche importante scelta di vita. Il primo impatto emotivo avviene proprio alla comunicazione della diagnosi, a causa del brusco passaggio dalla percezione di se' come "sano" a quella di "malato", in quanto, essendo alcune volte i primi sintomi banali ed aspecifici, puo' facilmente innestarsi sull'incredulita' del paziente il meccanismo della negazione, arrivando in qualche caso anche all'abbandono delle cure farmacologiche. Col passare del tempo subentrano altri problemi, riguardanti le scelte di vita. Il trovarsi di fronte, dolorosamente, all'essere affetti da Lupus Eritematoso Sistemico in concomitanza di un' importante scelta di vita (per esempio il desiderio di una gravidanza oppure il dover rifiutare un lavoro potenzialmente dannoso), puo' portare ad un improvviso peggioramento delle condizioni psichiche o dei sintomi soggettivi, e qui emerge l'importanza di un buon rapporto tra il paziente e lo staff curante, per poter ricevere un aiuto determinante nell'affrontare e ricostruire insieme il sistema motivazionale e di "attese" verso il Se' (Vetrone 1993).
La opportunita' dell'intervento psicologico clinico in favore di pazienti affetti da Lupus Eritematoso Sistemico si situa a vari livelli.
a) Le conseguenze psicologiche derivanti dall'impatto psicologico della malattia cronica: adattivita' delle difese, stili di coping, reazioni di distress, sintomatologia depressiva ed ansiosa, problemi relativi all'adattamento alla nuova condizione, la revisione degli stili di vita e l'impatto sul sistema di personalità dovuto ala rottura della progettualità pre-esistente alla malattia.
b) Il problema della diagnosi differenziale: discriminare, allo scopo di impostare il progetto di cura, il peso relativo di diversi fattori quali:
- organizzazione della personalita'
- eventuale sintomatologia premorbosa nevrotica, borderline o psicotica
- effetti collaterali dei farmaci assunti
- influenza della malattia cronica sull'immagine di se' e sull'autostima
- esiti psicopatologici dovuti al coinvolgimento lupico del sistema nervoso centrale, importanti queste ultimi da discriminare immediatamente e trattare con protocolli terapeutici adeguati
- eventuali deficit cognitivi, da stress o da coinvolgimento lupico del SNC, anche questi da discriminare con molta attenzione e trattare adeguatamente.
c) l'impatto psicologico della malattia sulle relazioni sociali: famiglia, amicizie, ambienti di lavoro, personale sanitario.
d) la ricerca clinica, anche attraverso la metodologia del "single case", che possa portare ad individuare modelli dell'interazione "mente-corpo", suggerendo inoltre chiavi di lettura del Lupus Eritematoso Sistemico fondate su modelli psicodinamici.
e) la ricerca sull'impostazione di metodologie d'intervento psicologico clinico, individuale e di gruppo, che aiutino i pazienti ad affrontare ed elaborare i diversi livelli di implicazione psicologica della malattia (a - d).
Esporremo ora alcune osservazioni scaturite dalle esperienze di frequenza di un ambulatorio di un Servizio Speciale per le Malattie Autoimmuni e di interventi psicologico-clinici individuali e di gruppo in favore di alcuni pazienti Lupus Eritematoso Sistemico.
Cominciamo con l'esaminare l'impatto psicologico derivante dal doversi trovare improvvisamente a gestire una malattia cronica. Cio' comporta la necessita' psicologica di riadattare l'immagine di se', spostandola su livelli di funzionamento compatibili con le limitazioni caratteristiche della malattia (Bertola, Cori, 1989). Tale compito viene svolto al meglio solo in presenza di un gia' elevato livello di auostima, mediato da un sentimento di efficacia del Se', da un tono edonico positivo (Seganti, A. 1995), dalla plasticita' delle difese prevalenti e da una buona qualita' delle relazioni oggettuali interiorizzate. La presenza di costellazioni psicopatologiche, oppure la tendenza a reazioni disadattive possono mettere l'individuo in condizione di non sopportare il trauma della comparsa della malattia cronica.
L'intervento psicologico clinico si rende percio' necessario non solo in presenza di una vera e propria struttura di personalita' che possa dar luogo ad esiti psicopatologici, ma anche in quei casi in cui l'assetto delle difese psicologiche, normalmente di una relativa efficacia, viene messo in crisi dalla comparsa della malattia.
Alcune caratteristiche del Lupus Eritematoso Sistemico differenziano questa da altre malattie croniche, generando un impatto psicologico del tutto peculiare.
Un paziente nel corso di un intervento di dinamica di gruppo racconto' che da bambino, in quella che poi sarebbe risultata una sorta di malevola autoprofezia, si chiedeva se potesse esistere una "malattia che provoca le malattie". Il paziente sviluppo' un LES, che per il suo carattere sistemico, si manifesta come un insieme di malattie, possibili o in atto.
Spesso la prima manifestazione del Lupus Eritematoso Sistemico non e' patognomonica, puo' interessare diversi distretti dell'organismo. Cio' comporta in molti casi una diagnosi tardiva, di cui il paziente viene messo a conoscenza solo dopo diverso tempo dall'esordio della malattia.
Le prime manifestazioni sintomatiche vengono trattate nei modi piu' diversi, assecondando per lo piu' le competenze specialistiche dei medici che incidentalmente in quel momento si trovano a trattarle.
I sintomi vengono spesso scambiati per manifestazioni di "altre malattie", a causa della particolare funzione mimetica presente nel Lupus Eritematoso Sistemico.
Le prime terapie troppo spesso risultano del tutto inadeguate, generando nel paziente e nelle famiglie un'angoscia che in taluni casi sfocia nel panico, visto il progressivo aggravarsi dei sintomi nonostante gli sforzi diagnostici e terapeutici dei medici.
E' questo il caso di Luigi, trattato per due anni come un paziente psicotico, con ricoveri in clinica psichiatrica e massicce dosi di tranquillanti maggiori, salvo poi scoprire, quasi per caso, che la sintomatologia era dovuta alle manifestazioni neurologiche del Lupus Eritematoso Sistemico che possono anche includere sintomi simil psicotici.
E' anche il caso di Gianna, per la quale il Lupus Eritematoso Sistemico si manifesto' con febbricola e artralgie, curata per tre anni come se avesse un'artrite reumatoide, sino a che, completamente immobilizzata a causa dei dolori, con i connotati cambiati a causa del gonfiore del viso e della caduta dei capelli, il Lupus Eritematoso Sistemico venne individuato attraverso una semplice analisi clinica che puo' rivelare la presenza di autoanticorpi e la tipologia delle cellule verso i quali gli autoanticorpi sono diretti.
La terapia adeguata, tranne che nei casi piu' gravi, comporta una pronta riduzione degli aspetti piu' devastanti della sintomatologia, generando nel paziente sia il sollievo momentaneo dall'angoscia di vedere il proprio corpo andare inesorabilmente distrutto, sia una profonda e persistente sfiducia e rabbia verso le strutture ed il personale sanitario, che non e' riuscito ad individuare le reali cause della sintomatologie e a porre rimedio in breve tempo, mentre invece cio' sarebbe stato possibile.
Questo altissimo livello d'incertezza determina nei pazienti un'angoscia psicotica verso il pericolo derivante dal senso di annientamento e di ignoto.
La comunicazione della diagnosi sembra, paradossalmente, favorire la riacquisizione di un maggior equilibrio psichico.
La reazione alla diagnosi sembra quindi differenziarsi, ad esempio, da quella dei pazienti con neoplasie. Per questi ultimi vengono descritte (Biondi, 1992) quattro fasi di reazione psicologica alla malattia, la fase di shock, di reazione, di elaborazione, di riorientamento.
La fase immediatamente successiva alla diagnosi, viene descritta in termini di shock, di "frattura nel senso di continuita' del se'", come catastrofe: abbiamo visto come cio' nel Lupus Eritematoso Sistemico inizi non con la comunicazione della diagnosi ma con la iniziale percezione delle "impossibilita'" di trattare la sintomatologia.
La comunicazione della diagnosi di Lupus Eritematoso Sistemico genera quindi una congerie di sentimenti ambivalenti: la cessazione del panico verso l'ignoto ma l'instaurarsi dell'angoscia dovuta all'essere portatori di una malattia poco conosciuta, quindi erroneamente considerata "rara"; il potersi finalmente affidare ad un' 'equipe di medici esperti sulla malattia e la perdita di fiducia nella classe medica che "non ha saputo" individuare in tempo la causa del malessere, comminando al paziente ed alla famiglia infinite sofferenze; vedere la rapida regressione dei sintomi piu' inquietanti, ma rinunciare con amarezza all'idea della guarigione.
L'ambiguita' e l'ambivalenza sembrano essere delle caratteristiche di fondo del Lupus Eritematoso Sistemico, che condizionano in maniera stressante il rapporto del paziente con la malattia e quindi con la propria progettualita' di vita. Fatti salvi i casi piu' gravi con evidente compromissione (danni neurologici, polinevrite, polimiosite, insufficienza renale grave, etc.), le pazienti portatrici di Lupus Eritematoso Sistemico possono talvolta essere individuate solo da un occhio molto esperto, a volte per il classico lieve eritema a farfalla che adorna il loro volto, oppure per il gonfiore del volto piu' o meno accentuato, provocata dall'assunzione delle terapie corticosteroidee.
".....Sembrano sane.....", e loro stesse sono portatrici di quest'ambiguita': nell'economia di vita di un individuo e' molto stressante dove fare i conti costantemente con una malattia che c'e', ma spesso non si rende evidente se non attraverso i reperti di laboratorio.
Cio' comporta il vivere in uno stato di costante allerta, verso un pericolo infido che puo' presentarsi da un momento all'altro. Pericolo di cui i pazienti, nel loro stato di perenne all'erta, cercano attivamente le tracce, spesso attribuendo al Lupus Eritematoso Sistemico una forma sintomatologica che si possa presentare in maniere indipendente dalla malattia stessa.
"Anche un mal di denti fa precipitare nell'angoscia della riattivazione della malattia", "ogni cosa che ti capita non sai mai se attribuirla al Lupus Eritematoso Sistemico, ma il pensiero ti va sempre li'."
Riguardo poi all'andamento della malattia, le indicazioni prognostiche che vengono fornite non godono mai di una pur relativa attendibilita', costituiscono soltanto indicazioni di massima, visto che la malattia puo' transitare facilmente da condizioni di parziale remissione, o comunque di buon controllo della sintomatologia attraverso le terapie, a condizioni di aggravamento anche di una certa entita', e questo senza che siano individuate delle cause chiare di questo aggravarsi.
La rappresentazione che i pazienti hanno del Lupus Eritematoso Sistemico quindi e' dominata da due aspetti, uno probabile conseguenza dell'altro: la maggior parte degli aggettivi usati dai pazienti per definire la malattia da una parte fa riferimento all'ambiguita'' ed al perenne senso di pericolo imminente, dall'altra richiama come il Lupus Eritematoso Sistemico sia sinonimo di stress, stanchezza, "nevrosi".
L'alto livello di stress puo' considerarsi correlato all'altissimo livello di incertezza e senso di pericolo imminente.
La costante incertezza sull'andamento della malattia comporta due organizzazioni mentali prevalenti, una orientata da modalita' fobico-ossessive, l'altra da modalita' controfobiche.
Nel primo caso abbiamo il tentativo di controllare l'angoscia attivando quanto piu' possibile livelli di controllo, che vanno da un'attenzione ossessiva verso i piu' piccoli "segni" di disturbo fisico, al moltiplicarsi, delle volte eccessivo e razionalmente ingiustificato, di controlli clinici e visite specialistiche.
L'atteggiamento controfobico invece e' quello che porta a negare l'esistenza della malattia stessa, mettendo in atto, spesso attraverso uno stile di vita ipo-maniacale, un complesso sistema di evitamento di tutto cio' che possa richiamare alla mente l'esistenza del Lupus Eritematoso Sistemico.
Il controllo ossessivo ed onnipotente da una parte, l'evitamento costante dall'altra, costituiscono entrambi delle strutture di relazione che comportano un sovrainvestimento dei sistemi di controllo, a scapito della progettualita' e della capacita' di far fronte ai piccoli grandi traumi della vita quotidiana.
Il distress sarebbe quindi alimentato da entrambi i fattori menzionati, ripetiamo, sia l'ipercontrollo che l'aumentata sensibilita' ai microtraumi psicologici, stante la diminuita capacita' di farvi fronte.
Il paziente con il Lupus Eritematoso Sistemico cadrebbe quindi in una sorta di circolo vizioso per cui le reazioni psicologiche alla malattia provocherebbero distress, questi a sua volta potrebbe avere una influenza diretta sull'aggravarsi della sintomatologia stessa, attraverso possibili interazioni tra il sistema neurovegetativo, il sistema endocrino ed il sistema immunitario.
Compito specifico dello Psicologo Clinico e' quelli di utilizzare dei modelli d'intervento che, facilitando l'elaborazione dell'angoscia e dell'imminente senso di pericolo, favoriscano l'esame di realta', diminuendo contemporaneamente i livelli di attivazione neurovegetativa.
Capitolo a parte meritano poi le conseguenze del Lupus Eritematoso Sistemico sulla autoimmagine dei pazienti.
Come abbiamo visto il Lupus Eritematoso Sistemico colpisce soprattutto donne, prevalentemente in giovane eta'.
Il Lupus Eritematoso Sistemico puo' comportare caduta dei capelli, eritemi, vasculiti, gonfiore degli arti, lividi e porpora. Nelle fasi acute della malattia l'immagine di Se' puo' modificarsi in maniera consistente, tanto da comportare alcune reazioni di ritiro sociale, soprattutto in donne giovani, per le quali l'immagine di Se' costituisce un'area molto investita, di vitale importanza per l'autostima necessaria a sostenere l'impatto delle relazioni sociali.
L'assunzione frequentissima di terapie cortisoniche poi determina quel classico aspetto di facies "a luna piena" che tanto colpisce negativamente le pazienti con Lupus Eritematoso Sistemico.
Inoltre, dal momento che i raggi ultravioletti possono determinare uno scatenamento di reazioni autoimmuni, le pazienti con il Lupus Eritematoso Sistemico non possono esporsi al sole e quindi sfoggiare la pelle abbronzata, secondo i dettami di costume della epoca attuale.
Non potersi esporre al sole rimane una limitazione stabile, mentre tutti gli altri fenomeni possono regredire a livelli accettabili.
La creazione di uno spazio mentale per la pensabilità di un'immagine di Se' non legata al registro dell'onnipotenza costituisce un altro compito specifico dello Psicologo Clinico: una dimensione in cui il paziente possa essere facilitato ad entrare, sempre favorendo 'esame di realta' ed evitando o riducendo al minimo reazioni fobiche o controfobiche.
Un altro problema da affrontare riguarda l'eta' in cui la malattia in molti casi si presenta: spesso ci troviamo di fronte ad un esordio della malattia in eta' adolescenziale, ed e' proprio questo tipo di pazienti che maggiormente dovrebbero risentire delle complicazioni psicologiche che accompagnano la malattia.
L'adolescenza infatti presenta dei compiti evolutivi particolari. Si e' parlato della adolescenza come una seconda fase di separazione individuazione, il cui compito evolutivo e' quello di creare un senso di se' autonomo (Miller, 1992).
L'esordio della malattia in adolescenza puo' avere l'effetto di frustrare le aspettative di autonomia, legando la paziente ad una dipendenza dalle figure parentali. Cio' rende difficile l'elaborazione della fase di separazione, nella quale si rivedono le relazioni con le figure parentali, rendendole meno onnipotenti, e la successiva fase di individuazione, in cui si dovrebbe poter acquisire un saldo senso di controllo della realta' esterna. Le limitazioni imposte dalla presenza del Lupus Eritematoso Sistemico rendono piu' tormentata l'acquisizione di questi obiettivi evolutivi.
Cio' avviene in un momento nel quale l'adolescente fa i conti con la delusione del proprio senso di onnipotenza e sperimenta spesso sentimenti di inadeguatezza legati alla perdita del corpo infantile. Tutto cio' e' fisiologico rispetto all'eta', ma la presenza di una malattia come il Lupus Eritematoso Sistemico, con le alterazioni dell'immagine corporea che comporta, finisce per esacerbare quelli che normalmente costituirebbero fenomeni strettamente legati all'eta'.
Impotenza, inadeguatezza e caduta dell'autostima possono portare ad una reazione paradossale ad un agito maniacale che possa negare sia la dipendenza dalle figure parentali che la malattia, rendendo estremamente difficile ottenere una buona compliance e portando la paziente spesso ad un vero e proprio rischio di vita: le cure diventano il centro delle contese familiari, la propria indipendenza viene simbolicamente identificata con la liberta'' di non essere malata e non seguire le cure e le prescrizioni comportamentali legate alla malattia (ad esempio, non esporsi al sole).
Altra reazione, di segno comportamentalmente opposto ma uguale sul piano del senso clinico, e' quella di pazienti adolescenti che, a causa dell'interferire della condizione di malattia cronica, non riescono a sviluppare un adeguato senso di se' e rimangono anche materialmente per lungo tempo dipendenti dalla famiglia. Le cure e la gestione della malattia diventano un pretesto per veicolare i propri bisogni affettivi di dipendenza.
Queste giovani rischiano di diventare poi adulte che avranno difficolta' nell'attivare una gestione consapevole della propria malattia, piuttosto mostrando la tendenza ad affidarsi a figure di riferimento, come un partner oppure un medico investito di particolare carisma. tale tipo di attaccamento ha sempre un suo risvolto ambivalente, rabbioso per la dipendenza a cui la paziente e' costretta, ambivalenza rabbiosa che spesso costituisce un vero e proprio ordine del giorno inconsapevole che porta a boicottare nei fatti le iniziative di cura che invece su un piano razionale e cosciente vengono perseguite.
Le pazienti adolescenti affette da Lupus Eritematoso Sistemico, per la particolarita' della loro condizione, costituiscono un piano d'intervento in cui lo Psicologo Clinico dovra' saper coniugare conoscenze ed esperienze relative all'adolescenza come fase evolutiva con compiti specifici, ma nello stesso tempo saper valutare l'impatto della malattia, che rende difficile l'assolvimento di questi compiti evolutivi.
Competenza specifica del clinico sara' quella di creare un setting ove possa essere rimessa in moto una facilitazione di un processo evolutivo altrimenti bloccato. Altra dimensione in cui si rende importante l'utilizzazione della competenza psicologico clinica e' quella della gravidanza.
La gravidanza in pazienti Lupus Eritematoso Sistemico, come abbiamo visto, presenta degli aspetti problematici, soprattutto in presenza della cosiddetta sindrome antifosfolipidica con la presenza di anticorpi anticardiolipina.
Come abbiamo visto il Lupus Eritematoso Sistemico colpisce soprattutto donne in giovane eta', quindi potenzialmente interessate al tema della gravidanza.
Il rischio, in caso di gravidanza, e' legato alla possibilita' di aborto spontaneo (25% dei casi), alla possibilita' di sviluppare gestosi gravidica con insufficienza renale di vario grado, alla possibilita'' di recrudescenza della malattia, in genere entro due mesi dalla data del parto.
I rischi per il neonato consistono principalmente in una rara malformazione cardiaca che comporta bradicardia e che prevede un intervento chirurgico (malformazione presente solo nei neonati da madri che presentano una specifica configurazione autoanticorpale, oramai identificabile), nella cosiddetta sindrome "LES neonatale", che si manifesta con eruzioni cutanee dovute alla presenza nel circolo di autoanticorpi materni passati attraverso la circolazione placentare e che regredisce spontaneamente in breve tempo.
La dimensione della gravidanza nel Lupus Eritematoso Sistemico assume quindi per la donna specifiche configurazioni fantasmatiche legate all'assunzione di rischio, sia personale che di perdita del nascituro.
E' gia' noto che affrontare la gravidanza con serenita', con uno spazio mentale presente nella coppia che si configura come contenitore delle rappresentazioni relative al figlio che nascera', e' uno dei prerequisiti che consentono un minor numero di "incidenti di percorso".
Inevitabilmente ogni conflitto presente nella donna e nella coppia influira' sul modo in cui il corpo materno sapra' accogliere, nutrire a dare tranquillita' al nascituro.
Forse la spiegazione delle modalita' con cui questi fenomeni si determinano puo' essere racchiusa nello studio del sistema immunitario, che insieme al sistema neurovegetativo e neuroendocrino costituisce il cosiddetto "l'anello di congiunzione" tra mente e corpo, il famoso anello di congiunzione ricercato dai vecchi psicosomatisti che consideravano la mente come se fosse separata dal corpo.
Ora, per motivi che ancora sfuggono ad una spiegazione scientifica dei fenomeni, la gravidanza nell'ambito del funzionamento abituale del sistema immunitario, costituisce un caso a se'. La gravidanza e' l'unica condizione in cui il sistema immunitario non produce anticorpi verso un patrimonio genetico nettamente identificato come "non-Se'". In altre parole, non ci si spiega come mai gli anticorpi non attacchino i 23 cromosomi paterni presenti nel feto, continuando comunque ad aggredire altri agenti esterni.
Questa condizione fisiologica e' foriera di ipotesi psicologicamente significative. La gravidanza in corso di Lupus Eritematoso Sistemico paradossalmente spesso comporta un miglioramento generale delle condizioni della malattia, talvolta fino a far transitoriamente scomparire la positivita' agli autoanticorpi patognomonici della malattia.
La ricerca medica si sta occupando quindi di identificare le specifiche configurazioni autoanticorpali che comportano rischi nella gravidanza, per fornire alle coppie che volessero intraprendere l'idea di concepire un figlio quanti piu' elementi per decidere.
Tale counseling temporalmente si colloca infatti prima della diagnosi prenatale, inizia quando appare l'idea di concepire un figlio.
Lo specifico dello Psicologo Clinico in quest'ambito consiste nell'aiutare la coppia ad esplorare le fantasie anticipatorie, evitando per quanto possibile la messa in atto di difese maniacali contro il lutto legato al dover rinunciare alla gravidanza, oppure legato al dover intraprendere una gravidanza "non normale", "a rischio", condizionata da ripetuti e sistematici monitoraggi polispecialistici.
Le difese maniacali agite, ancor piu' che l'ignoranza, portano alcune pazienti ad intraprendere gravidanze con un alto livello di rischio gia' prevedibile, negando quasi l'esistenza della malattia e non seguendo tutti i necessari monitoraggi, con conseguenze spesso gravi sia per la mamma che per il nascituro.
Obiettivo del lavoro dello Psicologo Clinico quindi e' quello di aiutare la coppia a definire, attraversando le proprie rappresentazioni anticipatorie, quale sia il progetto di vita condiviso e come la presenza o l'assenza di un figlio naturale possa essere integrata nel progetto.
Solo la chiarezza su tale progetto condiviso potra dare alla coppia il "pensiero forte", la guida che consentira' di mettere in piedi una rete di consulenti medici che possano aiutare la coppia a realizzare il progetto.
La chiarezza sulla propria progettualita' e' una competenza psicologica che dovrebbe essere facilitata in ogni malato cronico attraverso un aiuto specialistico, in modo che il paziente, individuando si il progetto che il metodo per realizzarlo, possa attivamente interloquire e circondarsi di tutte le collaborazioni necessarie alla realizzazione della progettualita'.
La gravidanza intesa anche come evento mentale si inserisce a pieno in questo tema, costringendo il paziente a prendere atto della necessita' di pensare in termini progettuali.
Occorre quindi un cambiamento di mentalita' sia nei medici curanti che nei pazienti; i medici dovrebbero diventare accompagnatori in un percorso di malattia ma anche di vita, consulenti, rinunciando a mettere in atto con i pazienti un rapporto di tipo "carismatico-affiliativo".
Tale tipo di rapporto e' rassicurante non solo per il sanitario che si vede continuamente confermato nel suo ruolo, senza necessita' di negoziarlo nella relazione professionale, ma risulta essere rassicurante anche per i pazienti ed i loro familiari.
Questi infatti attribuiscono simbolicamente ai sanitari che li hanno in cura un ruolo direttamente derivato dal modello di relazione attivato nell'infanzia con i propri caregivers.
Ne risulta una dinamica di affidamento regressivo che spesso nasconde sentimenti altamente ambivalenti, dal momento che in questo modo viene continuamente messa in dubbio l'autonomia propria delle persone adulte.
Il rapporto medico-paziente in questo modo risente di tutte le difficolta' nevrotiche derivanti dalla storia di entrambi.
Storie di relazione ambivalente con i propri caregivers, storie in cui si e' verificato un mal funzionamento nella modulazione degli stati affettivi da parte dei caregivers, hanno dato origine a dei modelli strategici difensivi che vengono riattualizzati nella relazione con il medico curante.
Una dinamica relazionale di questo tipo spesso esita in un affidamento ambivalente, con pazienti spesso disposti a cambiare struttura di assistenza alla prima difficolta', per meglio dire, alla prima occasione in cui la struttura sanitaria ed il medico curante non rispondono in maniera onnipotente e risolutiva, in maniera congrua alla attribuzione di un ruolo carismatico effettuata dai pazienti.
Conseguenza dirette sono il moltiplicarsi della richiesta di prestazioni specialistiche, l'impegno di diverse strutture sanitarie con duplicazione di visite ed analisi cliniche, il ricorso alla negazione della malattia attraverso la cura con le cosiddette pratiche mediche alternative, fino a vere e proprie interruzioni di cura. Lo Psicologo Clinico ha una funzione fondamentale nell'aiutare la coppia medico-paziente nell'analisi della loro relazione, per favorire un progressivo esame di realta' e la transizione da un modello di rapporto carismatico - affiliativo ad un modello di rapporto basato su motivazioni alla riuscita.
Parimenti lo Psicologo Clinico rivestirebbe la funzione di analizzare e favorire cosi' la trasformazione delle motivazioni al rapporto presenti nello staff curante: laddove la motivazione alla risuscita rischia di essere frustrata nel prendersi carico della cura di una malattia cronica, molti sanitari mettono in atto strategie difensive. Nella relazione con il paziente 'e come se diventasse piu' importante ottenere conferme del proprio ruolo e della propria abilita' di medico, accogliendo la proposta relazionale del paziente che attribuisce al medico il ruolo di figura carismatica.
Cio' delle volte aiuta il personale sanitario ad illudersi di sopportare lo stress professionale dovuto all'essere continuamente sottoposto all'insanabile contraddizione di avere il ruolo di curare una malattia che, definitoriamente, non si guarisce in quanto cronica, confondendo emozionalmente il curare con il guarire (Mucelli, Masci, 1996).
Aiutare il paziente a trasformare la relazione con i sanitari da un rapporto carismatico affiliativo ad una relazione che sottenda motivazioni alla riuscita , pone immediatamente la questione i quale tipo di riuscita si tratti.
Per il medico generalmente si parla di riuscite nei termini del mantenimento di una condizione relativamente ottimale rispetto alle caratteristiche fisiche del paziente.
Per il paziente invece non si tratta solo di riuscire nel miglior livello possibile di cura della malattia ma soprattutto di riuscire ad ottenere il miglior livello di cura possibile che consenta la migliore qualita' di vita possibile.
La qualita' di vita che ciascuno persegue e' direttamente legata al tipo di progettualita' messa in atto. La questione della gravidanza, da noi descritta sopra, implica ad esempio una serie di scelte che vengono effettuate non solo sul piano strettamente clinico, ma sul piano dell'intero equilibrio di vita della donna e della coppia. per tentare di ridurre il problema in categorie, il rischio della gravidanza va sempre posto a confronto con il rischio psicologico di una mancata maternita'.
La "riuscita" della cura sara' veramente tale per il paziente se, ad esempio, tali rischi verranno entrambi valutati. Non esiste un criterio assoluto di valutazione, essendo questa strettamente commisurata e dipendente da tipo di progettualita' di vita che il paziente tende a mettere in atto.
Occorrera' quindi che la progettualita' sia relativamente chiara e delineata.
Si pone quindi a pieno titolo un altro tema professionale per lo Psicologo Clinico: favorire il recupero della funzione progettuale nei pazienti con Lupus Eritematoso Sistemico.
Perche' parliamo di recupero e non solo di sviluppo? Come abbiamo visto, nella maggioranza dei casi l'esordio della malattia avviene attraverso una sintomatologia grave, sulla quale spesso si tarda ad intervenire a causa della lentezza con la quale viene posta la diagnosi. Il paziente quindi si trova, spesso per lungo tempo, con il corpo che ha smesso di funzionare senza che vi si possa porre rimedio alcuno.
Cio' determina un vero e proprio breakdown rispetto alla precedente immagine di se', per cui all'immagine di un corpo funzionante si sostituisce improvvisamente l'immagine di un corpo non piu'' in grado di funzionare, alle prese con una malattia ignota e come tale ancora piu' inquietante.
Su un piano psicosociale invece, dalla diagnosi in poi, cominciano a diventare chiari i limiti posti dalla malattia, in termini di capacita' lavorativa e relazionale.
Possibili reazioni ambivalenti dei familiari e dei partner non aiutano a favorire nel paziente quel senso di continuita' con la precedente immagine di se' che costituisce il presupposto indispensabile per un'efficace self-definition (Blatt, Blass, 1993).
Il paziente si trova cosi' di fronte ad un doppio fallimento, sia nella area della self-definition che nella area della relatedness (Blatt, Blass, ibidem), non essendo le relazioni significative efficaci nel modulare l'acquisizione di una immagine di se' piu' limitata e compatibile con la presenza della malattia.
Non dimentichiamo l'osservazione clinica riguardante l'atteggiamento di molti familiari che negano la malattia del loro congiunto, arrivando anche a rotture radicali e separazioni che spesso seguono l'instaurarsi della malattia.
Assistiamo quindi a quel fenomeno che potremmo definire "rottura della progettualita'", per il quale il paziente diventa depressivamente incapace di progettare. Ogni progetto sembra destinato a fallire o quantomeno ad essere messo in dubbio dalla bizzarria della malattia, che obiettivamente consente livelli di funzionamento molto differenti a seconda del livella di attivita' e della gravita'. Problema comune a pazienti in eta' relativamente giovane riguarda le relazioni affettive, per cui progettare una vita di coppia viene percepito quasi come un tradimento nei confronti del futuro partner, che verrebbe a condividere molti degli aspetti negativi della malattia.
Cio' probabilmente costituisce la razionalizzazione di una fantasia di sentirsi danneggiati e contaminanti, pieni di rabbia distruttiva e di invidia per le cosiddette "persone sane".
Cio' comporta nei giovani pazienti una difficolta' a lasciarsi andare ai sentimenti tipici dell'innamoramento che prevedono anche la possibilita' di fantasticare e poi eventualmente realizzare un comune futuro di coppia.
La paura di rendere infelice il partner domina anche quei pazienti meno giovani che hanno visto il matrimonio incrinarsi a causa di una relazione esacerbatasi, in molti casi, dall'arrivo della malattia in poi.
Clinicamente si instaura una mentalita' tipica della struttura depressiva di personalita', con attribuzione di colpe a se' stessi e con la sensazione di essere non meritevoli di attenzioni e di cure.
Dalla malattia in poi il paziente avverte qualsiasi progetto minato alla base. E' per il momento difficile dire se tali osservazioni cliniche si collochino sul piano delle reazioni alla malattia oppure della presenza di una personalita' pre-morbosa. Per ora e' impossibile prendere una posizione apodittica, il dubbio va affrontato impostando studi longitudinali con casistiche maggiormente estese di quelle attualmente a disposizione.
Al livello consentito dalle attuali conoscenze l'intervento psicologico clinico dovrebbe avere l'obiettivo prioritario di restaurare nei pazienti la funzione progettuale, tollerando di non conoscere tutti i fattori che abbiano determinato questa perdita e limitandosi ad utilizzare ipotesi parziali.
Tale intervento puo' essere condotto attraverso l'utilizzazione di setting diversi.
Un possibile setting da attivare, di cui uno degli autori del presente lavoro ha fatto esperienza diretta, é un primo counseling psicologico clinico gia' nell'ambito della visita ambulatoriale (prima visita o controllo) presso il centro specialistico Universitario che li segue.
In questo setting e' risultata determinante la presenza dello Psicologo Clinico per la possibilita' che questi offriva nell'affrontare i problemi psicologici connessi alla malattia nel qui ed ora, mentre si manifestavano nella relazione stessa con la struttura sanitaria.
Parimenti, la presenza dello Psicologo Clinico ha consentito anche al medico specialista una riflessione ed una consultazione a caldo sulla relazione messa in atto con il paziente e sulle modalita' psicologiche con cui questi rispondeva alle terapie ed alla cura.
La presenza stessa dello Psicologo Clinico, riscrivendo il contesto nel quale avviene l'abituale osservazione clinica, consentiva al medico di ampliare le proprie categorie di osservazione, esplicitando e categorizzando maggiormente cio' che prima veniva relegato nel campo delle "intuizioni".
Altre nostre esperienze riguardano poi pazienti trattati con la metodologia gruppo-analitica in gruppi polisintomatici ed in un setting di psicoterapia dinamica a tempo determinato; in questo caso abbiamo potuto assistere nella storia dei pazienti il fallimento delle precedenti relazioni nella modulazione degli affetti principali, il conseguente sedimentarsi di un'immagine negativa di se' con tendenza alla autodenigrazione e a rivolgere l'aggressivita' verso il Se'.
Nel corso dei trattamenti abbiamo assistito anche ad interruzioni dovute all'attivazione della malattia. Il vertice dell'osservazione psicoanalitica ha privilegiato le modalita' con le quali dai pazienti sono state ricostruite le relazioni interrotte a causa della malattia e come, in questo caso, il gruppo abbia aiutato i pazienti in questa ricucitura.
Nel tempo e' aumentata la capacita' dei pazienti di sanare le proprie ferite attraverso il gruppo, restituendo agli oggetti relazionali quella capacita' di modulazione degli affetti negativi che non sembra abbia fatto parte della loro storia.
Nel momento della iniziale stesura del presente scritto una paziente in particolare e' andata incontro ad un evento luttuoso e sta utilizzando principalmente il gruppo nella modulazione degli affetti negativi.
Particolare attenzione abbiamo posto nell'osservare se tale evento di separazione potesse dar luogo ad un'esacerbazione della malattia, come riportato in letteratura, oppure la paziente riuscira' a riscrivere la propria storia utilizzando relazioni affettivamente significative (il gruppo) per modulare gli aspetti ed i sentimenti negativi relativi alla separazione. Al momento dell'ultima revisione del presente scritto, trascorsi piu' di tre anni, possiamo osservare che la paziente non ha presentato alcuna ricaduta nel LES, riuscendo ad elaborare il proprio lutto in maniera estremamente produttiva ed originale.
Sono state attivate anche delle esperienze di dinamica di gruppo in gruppi monosintomatici a tempo determinato, in cui i pazienti sono stati aiutati ad elaborare vari aspetti dela loro relazione con la malattia. I pazienti sono stati tutti sottoposti a pre-test e post-test con strumenti che valutassero parametri cognitivi, neuropsicologici e relativi all'immagine di Se', per valutare l'eventuale esistenza di cambiamenti indotti dalla frequenza al gruppo. Nelle esperienze di dinamica di gruppo attualmente condotte vengono utilizzati, per il pre-post test, questionari sulla HARDINESS (Kobasa, 1979) ed un differenziale semantico sulle rappresentazioni della malattia costruito "ad hoc" (materiale non pubblicato).
Nel corso del presente scritto abbiamo sottolineato piu' volte la genericita' di alcuni dei modelli interpretativi dell'interazione tra dinamiche relazionali e sistema immunitario; non siamo d'altro canto in grado di dire molto di piu' per quanto riguarda il campo delle malattie autoimmuni.
Possiamo soltanto tentare di articolare alcune ipotesi generali desunte dalla esperienza clinica; tali ipotesi sarebbero suscettibili di verifica sperimentale e le proponiamo con l'intento di suscitare curiosita' e desiderio di approfondimento nei colleghi clinici e ricercatori.
La particolare configurazione presente nel Lupus Eritematoso Sistemico meriterebbe specifiche indagini sperimentali. Per ora dobbiamo limitarci alle osservazioni cliniche, secondo le quali sembra che l'alto livello di attivazione ed il distress generato dalla comparsa della malattia, contribuiscano a formare dei modelli psicologici di reazione ad una situazione stressante estremamente peculiari.
In altre parole, i pazienti con il Lupus Eritematoso Sistemico sembrano continuare a reagire, anche in stati di relativa calma della malattia e di non particolare attivazione emozionale, come se si trovassero di fronte ad una condizione stressante.
La mente sembra non riconoscere piu' la situazione stressante come stimolo specifico verso il quale attivare difese, ma erge le proprie modalita' difensive in maniera aspecifica e generalizzata. Cio' costituisce un affascinante parallelo rispetto a quanto avviene nella reazione autoimmune, per la quale gli anticorpi non distinguono piu' "Se'" da "non Se'", attivando quindi difese immunitarie continuamente ed in assenza di una specifica stimolazione.
Il citato lavoro di Mc Kinnon ha riscontrato una diminuzione dei linfociti T-suppressor in individui sottoposti a stress cronico. Ora, nei pazienti LES uno dei fattori di disregolazione e' proprio la diminuzione dei linfociti T-suppressor che non controllano in maniera adeguata la risposta immunitaria.
Resta la difficolta' di definire il termine "stress": tale definizione ci sembra possibile solo all'interno della modellizzazione di particolari dinamiche di relazione.
Gli stressors infatti non hanno valore di per se', se non contestualizzati all'interno dello studio delle modalita' con le quali vengono "processati" dall'individuo.
Tali modalita' si fondano su un delicato equilibrio tra la funzione auto-regolativa e la possibilita' di ricorrere a relazioni significative per poter attuare una sorta di "sintonia fine" della autoregolazione.
Nelle storie cliniche delle pazienti con LES che abbiamo seguito abbiamo riscontrato particolari ridondanze:
a- Una storia delle relazioni con i caregivers caratterizzata da massicce forme di etero-regolazione, che vanno da interventi etero-regolatori sia sulle funzioni biologiche (ritmo veglia-sonno, minzione, defecazione, alimentazione) che sulla modulazione della emozionalita' (rigidita' e scarso spazio concesso al "gesto spontaneo" secondo Winnicott).
b- Un vissuto storico di possedere risorse autoregolatorie insufficienti, inadeguate o, comunque, criticabili.
c- La difensivita' reattiva sviluppata per proteggersi dalla funzione eteroregolatoria percepita come una massiccia invasione del Se', per cui la relazione con i caregivers diviene connotata sempre piu' da un costante allarme contro la possibilita' di invasione, salvo poi estendersi ad una sensazione diffusa e pervasiva di "minaccia esistenziale".
d- Nel caso in cui sia necessario attivare un difesa oppure una modulazione compensativa verso forti stimolazioni provenienti dal mondo interno (conflitto, angoscia, rabbia) o dal mondo esterno (punti critici del ciclo di vita, difficolta' relazionali ed esistenziali), non sembra possibile ricorrere ai caregivers, per la angoscia di annientamento derivante dal senso di invasione massiccia, ne' alle proprie risorse, giudicate comunque inadeguate.
Sembra quindi crearsi una condizione di "vuoto regolativo", laddove ne' la etero ne' la autoregolazione sembra possano essere utilizzabili.
e- In risposta a questo particolare assetto fantasmatico sembra porsi una condizione di attivazione perenne, con difficolta' di discriminare stimoli interni da stimoli esterni ed anche l'entita' della risposta difensiva necessaria a far fronte agli eventi.
Nella citata ricerca di Hinrichsen, Folsch e Kirch (1992), come abbiamo visto i pazienti LES sottoposti a stress fisici e psicologici rispondono, come i controlli, con un adeguato aumento delle catecolamine, ma il loro sistema immunitario non risponde nella maniera attesa, come se non riconoscesse adeguatamente una situazione stressante, forse a causa di un iperallarme perennemente attivato che inevitabilmente innalza il livello di soglia e disregola la risposta.
Se tali osservazioni fossero suffragate da dati provenienti da adeguati modelli sperimentali, i pazienti LES potrebbero essere aiutati dallo Psicologo Clinico in maniera focalizzata, volta per esempio ad "elasticizzare" e modulare la loro risposta a stimoli emozionali forti, elaborando principalmente le fantasie relazionali che presiedono all'angoscia del sentirsi invasi, nell'area della relatedness, ed all'angoscia del sentirsi inadeguati, nell'area della self-definition.
Quand'anche una tale "matrice relazionale" fosse verificata, ribadiamo ancora una volta che andrebbe annoverata tra i fattori che presiedono allo scatenamento ed alla esacerbazione di una malattia autoimmune, assieme ai piu' conosciuti fattori endocrini, di fotosensibilita' e farmacologici.
Probabilmente per dare luogo ad uno scatenamento oppure ad un'esacerbazione della malattia occorre un pool dei fattori citati, ovviamente solo in presenza di una determinata predisposizione genetica.
In conclusione, viene spontaneo porsi la domanda se sia il tipo di organizzazione mentale pre-morbosa che abbia favorito, insieme a molti altri fattori, lo sviluppo proprie di questa malattia, come le storie narrate dai pazienti potrebbero far supporre, oppure se i ricordi del paziente vengono organizzati mentalmente secondo un modello isomorfo alle caratteristiche della malattia (minaccia esistenziale), e ciò avviene dopo l'arrivo della malattia stessa ovvero quando noi abbiamo occasione di intervistare i pazienti.
Probabilmente si tratta del vecchio tema dell'uovo e della gallina; in altre culture, diversa da quella occidentale, si potrebbe sorridere di un quesito che a noi appare ancora centrale: per poter assistere al meglio questi pazienti dovremmo avere la forza di lasciare il dubbio sospeso in modo che produca continue interrogazioni, ascoltando la loro narrazione, considerandola autentica e per questo "vera".
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